Il gelso magico di Menola
storia
di
Gian Berra
In copertina uno splendido dipinto di Anders Zorn
Il gelso magico di Menola
storia di
Gian Berra
Un
racconto di Gian Berra del 2012. Un inno a Pan e alle radici
vive
in tutti noi... testimone il morer, l'albero delle more.
In
onore del popolo del Veneto
e
alle sue radici originarie.
©
2012 Gian Berra
Un
racconto di Gian Berra del 2012. Un inno a Pan e alle radici vive in tutti
noi... testimone il morer, l'albero delle more.
Menola e il morer.
Vicenda
realmente accaduta nelle grave del Piave, tra Ciano e Covolo di Pederobba....
nel Veneto silenzioso.
Là
dove il Piave fa una grande ansa e gira deciso verso est, proprio di fianco a
Crocetta e Ciano, le sue rive si allargano senza limite. E' possibile camminare
per ore tra le lande sassose e non incontrare nessuno.
Per
questo ci vado spesso e tra erbe selvatiche e macchie rade di alberi fieri,
posso allargare lo sguardo sin dove può arrivare.
Non
ci sono limiti allo sguardo e così mi è facile lasciare che i ricordi prendano
il colore dell'aria. Senza schemi, la fantasia immagina e vive ogni realtà
possibile. Sogna e ricorda, appunto. Se guardo verso sud lo sguardo è riempito
dalla presenza del Montello, lunga e bassa collina che mi fa compagnia e
incornicia come un abbraccio la riva di Ciano.
E'
facile fare tanta strada che poi, stanco, vorrei andare a ristorarmi un po'.
Così
quando arrivo alla croda granda, giro sicuro, e l'osteria di Menola e proprio
la vicino.
Amo
quella roccia, ha resistito anche al dominio di Venezia.
Di
mattina o di pomeriggio non c'è mai nessuno e Menola è felice di poter parlare.
Io del resto in tasca ho sempre di che pagarmi l'ombra di rosso. Qualche volta
incontro anche Menico, sempre distratto e con lo sguardo scocciato.
Quando
lo vedo il cuore riprende a battere perché vorrei ascoltarlo ancora raccontare
la sua storia, ma devo aspettare che Menola sia di buon umore. Lui non vuole
ascoltarla per niente.
Lui
è l'oste e va rispettato.
Noi
veneti facciamo fatica a confidarci le nostre emozioni. Dopo mille anni di
controllo, temiamo che ci sia sempre una spia del padrone, pronta ad ascoltare
i nostri segreti.
Oggi
è un pomeriggio di quelli. Svogliato e senza idee sto aiutandomi con un uovo
sodo, a finire il vino aspro di Menola e guardo fuori i pioppi che sfumano
verso le rive.
Una
volta , poco più in giù c'era una grande pozza d'acqua, quasi un lagetto, e la
strada ci girava attorno. Sul lato accostato alla collina, la strada era solo
un sentiero che girava per agli alberi. Questi formavano un bosco che si
confondeva con la palude.
Un
grande morer solitario, imponente sulla riva , era il capo di tutti quegli
alberi. Cresciuto senza padroni formava lui solo una macchia imponente. Pochi
ci passavano accanto tranquilli o indifferenti. Lui chiedeva rispetto e
l'otteneva senza fatica. L'ombra del morer era un regno a sé. Ed è in questo
mondo sempre buio che…
Forse
non era stata una buona idea , ma Menico a volte non pensava. Si lasciava
condurre così dai pensieri vaganti finché la strada non esisteva più. Si era
avviato verso le grave anche se la sera ormai diventava quasi notte. Il fresco
di settembre era appena accennato e l'aria calda ancora invitava a pensieri
inquieti. Cosa cercare ancora tra quei sassi? Inquieto e svagato Menico aveva
già dimenticato la giornata di lavoro e il buio lo chiamava senza ragione. Si
accorse di essere lontano dal sentiero quando il fitto del bosco aveva già
coperto la luce della sera.
Il
buio improvviso lo svegliò dal sognare e lasciò che un brivido freddo lo
segnasse rapido come un lampo. Rallentò il passo, e cosciente del suo ritmo,
con cautela proseguì verso l'acqua.
Intuì
il sospiro come se realmente potesse udirlo... ma appena tendeva l'orecchio il
silenzio lo lasciava solo e deluso. Cos'era quel sussurro che non riusciva ad
ascoltare?
Furioso
per ciò che gli sfuggiva, si sedette sulla sabbia, tra due grosse quercie, e
guardando verso l'acqua vicina lasciò vagare l'attenzione come quando sognava.
Lui sognava con la mente e i pensieri erano liberi, ma con gli occhi osservava
il mondo da lontano.
Così,
ingannando la sua rabbia, lasciò entrare in sé ciò che non vedeva ne sentiva.
Con la coda dell'occhio notò un movimento nel buio alla sua sinistra. Sapeva di
non poter girare la testa, sentiva che se lo avesse fatto ogni cosa sarebbe
svanita. Lo sapeva e basta. Si lasciò condurre dall'istinto e fingendo di
guardare la palude, girò con prudenza il viso quanto bastava per osservare. E
poi con infinita lentezza, cercando di nascondere la sua tensione, spostò lo
sguardo con finta indifferenza.
Sotto
il gran morer un grumo scuro si muoveva. Non cercò subito di capire, ma lasciò
che si rivelasse a lui la scena: Una figura grossa e ingobbita, piegata e tesa,
era sopra un'altra figura seduta, appoggiata all'enorme tronco.
Soffi
e sbuffi e modi agitati rendevano tesa l'aria e Menico si sentì
risvegliare
il sangue.
Il
suo corpo non poteva ignorare il desiderio e già rispondeva al sogno nascosto.
Il suo manico premeva nei calzoni e pretendeva attenzione: Quei due spandevano
furia di vita con urla soffocate. Quello che stava sopra era fin troppo curvo
sulla femmina, ma era instancabile e la faceva gemere quasi come un pianto
sussurrato. Lei lo accoglieva abbracciandolo e tirandolo verso di sé muovendosi
a ondate lente e ritmate.
Poi
poco alla volta il silenzio riprese a dominare gli attimi.
I
due rimasero ancora abbracciati in un'unica forma scura e Menico per paura di
essere visto smise anche di respirare.
Onde
di odore muschiato solcavano come bassi sentieri l’aria tra i tronchi. Sembrava
che anche gli alberi aspettassero l’apice che chiedeva sfogo e liberazione.
Ma
il tempo sembrava non passare mai e tutto era in attesa, in tensione; Menico
viveva ciò come parte di ciò che accadeva.
Lui
già perdeva l’attenzione, un vago sonno ipnotico lo intorpidiva e lo rendeva
pesante, lento…
Per
poco non si strozzò quando quell'essere imponenete si alzò:
Un
mostro gigantesco, con le gambe storte e la gobba, le spalle smisurate e la
testa piccola, cercò di mettersi in equilibrio.
Ma
a Menico vennero i brividi quando vide e non volle credere.
Quella
creatura aveva i corni: erano piccoli e curvati all'indietro come le capre.
Menico si bloccò come fosse di ghiaccio.
Lo
sguardo si spostò allora su di Lei e la vide rilassata, appoggiata al grande
morer, con le gambe aperte e le braccia abbandonate sui fianchi.
Era
bianca come la luna; liscia e quasi trasparente. Un corpo acerbo ma voglioso di
vita. Il suo viso era delicato, piccolo e rotondo e risplendeva di riflessi
azzurri. Capelli lisci e chiari le ricadevano sulle spalle.
Un
ciuffo d’argento filato spiccava superbo tra le cosce che accoglievano lo
sguardo. Lei guardava il gigante con naturale interesse, lo squadrava e
assorbiva la sua immagine… e vide Menico.
Lei
non mosse gli occhi, ma lo vide. Menico sentì in sé sciogliesi ogni volontà. Il
mare infinito lo stava avvolgendo e sembrava annullare ogni pensiero. Tentò di
ribellarsi mentre una parte di sé, ferita, gridava di non farlo. Il cuore
sembrava scoppiargli nel petto e le mani artigliavano la sabbia. Con uno scatto
doloroso staccò gli occhi da Lei e fu subito catturato dallo sguardo di Lui.
Poi
due pupille di fuoco lo lo videro e lo guardarono assenti, e lo giudicavano.
Poi
divennero odio. Ora il mostro si era girato verso di lui.
Le
sue cosce pelose incorniciavano un pene appuntito ed esagerato. Nero nel nero.
I piedi erano piccoli, quasi degli zoccoli, e vide anche un accenno di coda.
Già il gigante stava per scattare quando Lei gli prese il polso peloso e lo
trattenne.
Menico
si trovò bloccato a fissarli entrambi e tremando, finalmente ascoltò la sua
paura. Scattò senza guardare, e corse verso la strada senza neanche più
pensare. Superò d’un balzo le rive solitarie e buie. Non vide i campi dove il
granturco si seccava , ne sentì gli squittii impauriti delle pantegane
disturbate. Corse e corse finché si ritrovò vicino alla casa dei signori
Matiol. Poi si sedette e dietro un mucchio di fieno si lasciò andare ad un
pianto senza vergogna.
La
luna da sopra lo consolava, ma era inutile. Menico si era bagnato i calzoni, e
ora portava in sé il sogno più sogno di tutti. Non poteva tornare a casa così.
No, lui aveva visto Lei, e la sua immagine era fusa al suo cuore.
Menico
aveva anche visto Lui, e nessuno, oltre Lui sarebbe stato più terribile.
Decise
di rimanere in compagnia con la luna, almeno per quella notte.
***
Bluette
teneva stretto a sé Bronza. Lui furioso già stringeva nel sogno il collo
dell’umano. La rabbia antica e la disperazione senza fine stava già cancellando
il piacere che lei gli aveva dato. Ma Bluette non avrebbe permesso a Bronza
furioso, di distruggere ciò che stava nascendo. Lo tirò a sé decisa e guidò con
la mano il suo membro fiero dentro di lei. Lo strinse e lo abbracciò di nuovo
con slancio e calore. Bronza avvertiva il fuoco e la rovina, ma il calore e
l’umido profondo di Bluette cancellava e diluiva la tensione.
Si
lasciò cadere nel fondo di lei ancora una volta.
Permise
alle sue reni di seminare ancora vita.
La
sua.
E
Bluette ancora lo accolse in sé. Ancora e ancora... Viveva del suo slancio e
gustava il suo fare.
Poi
pian piano la tensione svanì negli attimi. Ogni pensiero si placò, e Bronza si
lasciò cadere nel letto di foglie accanto a Lei. Sognava ad occhi socchiusi ed
assenti il piacere del nulla.
Ora,
appagato e quasi felice, lasciava che il filo rosso dell’ira rimanesse oltre
l’attenzione e i ricordi.
Lasciò
lontani i pensieri di vendetta e di sangue e si addormentò.
Lei
invece incrociò le braccia sui seni nudi, immaginando un brivido di freddo.
L’umano aveva visto lei e Bronza. Ciò la stupiva. In tutta la sua vita di ninfa
umida mai aveva notato umani che potessero vedere il popolo della vita.
Quelle
scimmie arroganti erano cieche al grande mondo.
Ma
l’umano era un giovane maschio e lei aveva catturato la sua attenzione. Aveva
ancora in sé il piacere dell’abbandono a Bronza. Ma il brivido sottile della
conquista dell’umano era dolce come il miele. E in autunno il miele era finito.
O no?
***
Menico
non tornò a casa quella notte. Dormì nel fienile accanto alla fontana piccola.
Poi si fece vedere affaccendato nell’orto di casa. Come si fosse alzato presto.
Sua madre gli chiese qualcosa, ma poi non ci pensò più e lo lasciò stare.Menico
invece non vedeva più le cose. Che ora era? Dove doveva andare? Ma oggi cosa
c’era da fare? E i fianchi levigati di Lei erano li davanti a lui e chiedevano
di essere accarezzati.
La
pelle di fanciulla, lucida e azzurrina era senza forma solida, ma prendeva
quella del suo desiderio.
Gli
occhi di lei erano uno spicchio d’infinito e lo supplicavano di venire ad
adorarla. La sua bocca da bambina era un frutto da gustare…
La
pancia di Menico era una tensione che voleva.
Il
sesso di Menico pretendeva.
E
la giornata adesso non sapeva di nulla. Lui era solo. Ma stasera sarebbe
tornato là. Certo che sì! Desiderava Lei come la vita. Le sere di settembre qui
sul Piave di Ciano, sono lunghe e ancora calde e i profumi dell’estate
indugiano nell’aria senza vento.
Ma
un vago senso di inquietudine, nascosto sotto la crosta delle cose che si
vedono, rende inquieti i cuori.
Specialmente
quelli che si vogliono incontrare e hanno fretta di toccarsi e gustare il fatto
di esistere.
Così
Menico si avvicinò quasi di corsa al bosco del morer, ma poi quando fu a pochi
passi si nascose e rimase ad ascoltare. Nulla e nessuno era presente. Echi
lontani sottolineavano un silenzio indifferente alla sua tensione.
Si
avvicinò al morer e la sabbia nulla diceva dei ricordi che lui si portava
dentro.
Sedette
appoggiandosi al tronco e poco alla volta si lasciò avvolgere dalla penombra.
La accettò come parte di sé e i pensieri si placarono.
Bluette
lo sentì quando era ancora nascosta sul lato fitto del bosco. Piano si
avvicinò, studiando la sua attenzione. Ancora lui non l’aveva vista, ma
sembrava sicuro di sé: lui nascondeva bene il suo desiderio. Lui la voleva: un
umano?
Si
avvicinò ancora un poco e uscì con prudenza dall’ombra oscura di un’acacia,
proprio di fronte la radura.
E
Menico che sognava ad occhi aperti non la vide finché una scintilla illuminò il
punto nascosto del suo occhio destro e accese il suo desiderio.
Il
cuore ebbe un sussulto e gli bloccò il respiro.
La
sua schiena si irrigidì e da solo il suo sguardo seppe dove guardare. La vide
che usciva dal buio come se camminasse su una nuvola.
Lei
splendeva di luce propria e lo guardava sicura di sé. Le sue braccia cadevano
naturali incorniciate dai lunghi capelli e il seno piccolo ma fiero si
mostrava. Il ventre invitava al suo ciuffo di vita e le lunghe gambe si
muovevano appena, lente e sicure. Lui venne catturato da qurgli occhi. Erano un
mare verde su cui annegare.
Quando
Lei le fu vicina gli parve di entrare nella luce che la avvolgeva e il mondo di
sempre non esisteva più.
Non
furono necessarie parole e lui non ricordò mai di averla toccata.
Ma
quando lui entrò in lei era come se si fosse annullato nel grande mare della
vita e perse la sua identità sognando e gustando il suo abbraccio. Aveva
provato il paradiso e non desiderava altro. Sentiva le sue forme e accarezzava
il suo velluto e ogni carezza era quella più dolce. La voluttà di esistere e
vivere era una realtà concreta. L’umido in cui si muoveva era l’invito ad una
eternità di estasi senza fine…
Poi
gli occhi di lei che lo guardavano dentro, lo lasciarono giocare coi colori e
l’infinito. Lui seppe quando questo finì.
Quando
poco alla volta il riposo lo riportò al mondo. Con lei vicino che lo guadava,
lui sentì senza soffrire il distacco. Lei non permise al suo cuore di soffrire
e gli rimase
vicina
finché il sonno lo vinse.
°°°
Bluette
lentamente si staccò dall’umano. Leggera come una foglia gli permise di rimanere
nel sogno che lo rapiva e gli regalava vera gioia. Lei aveva conquistato il suo
cuore e lui ora
era
suo per sempre. Ora quella scimmia umana aveva sperimentato l’infinito e il suo
sguardo ora vagava oltre la nebbia di sempre.
Lei
sentiva in sé la forza che lui le aveva dato col suo desiderio. Aveva un sapore
diverso da quella che Bronza le regalava: quella di Menico non sapeva di
arroganza o potere.
Era
piuttosto simile a quella dei bambini che non hanno limiti e osano il gioco,
irresponsabili, ma vogliono anche essere rassicurati.
Così
grazie al legame che lei aveva creato, avrebbe mantenuto in sé quel nuovo
sapore. Un colore nuovo la colmava dentro, e Bluette sapeva di avere vinto.
L'umano
mai avrebbe trovato pace.
Poi
l’aria fredda della notte svegliò Menico, che stupito di ritrovarsi lì, si
rivestì svogliato. Non vide la luna, e il buio attorno a lui era come una
coperta di velluto. Lei non c’era più. Ma era come se fosse ancora con lui. La
sentiva dentro come una cosa conquistata. L’aveva fatta sua. Una parte di sé la
voleva toccare, e guardare ancora negli occhi; ma sapeva che non sarebbe più
venuta. Aveva toccato il cielo. Le cose non sarebbero più state le stesse.
Menico si avviò mesto verso Ciano. Ora gli occhi vedevano le ombre degli alberi
quasi vive, e lontano sul Montello notò strani riflessi che saettavano sopra il
bosco. Sentì la civetta chiamare, e per la prima volta non provò fastidio;
anzi, avrebbe voluto rispondere al saluto. Bastò questo a donargli un poco di
calore. Menico sentiva la vita scorrere attorno a sé, e questa sensazione lo
riempiva e lo confortava…
Menico
non era più solo.
Alcuni
anni dopo.
In
quelun pomeriggio di settembre, Menico era inquieto.
Lo
era sempre quando venivano alla sua osteria Menola e Gian. Quei due sembrava si
mettessero d’accordo. E venivano sempre negli orari più strani.
Oggi
che giorno è? Già oggi è venerdì e domani cominciano ad arrivare i villeggianti
da Treviso e i Veneziani. Sono loro che riempiono l’osteria ogni fine
settimana. Si comportano come se fossero padroni di tutto.
Se
Menico dovesse contare sugli abitanti di Ciano o di Covolo, lui avrebbe già
chiuso l'osteria. Vede in lontananza quei due che si salutano: Menola solitario
torna verso Ciano e Gian si incammina giù per le grave, verso Covolo.
Già,
Tra Menola e Menico c’è una vecchia ruggine...
Menico
ricorda quella volta che suo padre, l’anno prima che morisse e che gli
lasciasse l’osteria in eredità, volle tagliare il grande albero delle more per
farne legna.
Chiamò
due suoi amici ad aiutarlo. Abbatterono il grande tronco con fatica e sudore,
ma la legna durò parecchio.
Ricorda
che quando Menola venne a saperlo, corse all’osteria a urlare che avevano fatto
una cosa schifosa.
Era
la prima volta che vedevano Menola infuriato, tutto rosso in faccia.
Sembrava
matto, e poi si era messo a piangere come un bambino! Prima la madre dell'oste,
e poi anche gli altri presenti nell'osteria lo avevano confortato offrendogli un’ombra
di vino rosso e un panino con le sardelle.
Poi
Menola si calmò e non se ne parlò più. Lui non si era mai sposato e viveva da
solo sulle rive, ma almeno una volta alla settimana veniva all’osteria.
Ma
per i gusti di Menico lui era un solitario troppo imbambolato.
Ora
comunque c’era da preparare l’osteria per il fine settimana…
Già.
So bene che vi faccio perdere tempo a rinvangare vecchie storie. Ma tengo a
precisare che di certo qualcuno l’ha visto. Nessuno ne vuole parlare e se ne
vergogna. Ma a me non importa. Voglio dirlo almeno una volta, qui che nessuno
mi conosce e anche se mi prende per matto non me ne frega niente.
Si
dice che un’ombra scura ogni tanto saetta là dove c’era una volta il grande
albero delle more.
L’ombra
è nera e grande, sembra abbia anche le corna e la coda. Qualcuno ha visto gli
occhi di quel mostro: sono rossi e pieni di furia e d’ira.
Chi
ha visto quel diavolo, in quel posto non ci è più tornato.
©2012 Gian Berra
La foto ritrae Gian Berra nel
1972-73. Gian era un giovane che dopo una breve esperienza universitaria aveva
abbracciato con ardore gli ultimi fuochi dell’epoca hippies Ma la provincia
veneta era distante dalle passioni di libertà della fine degli anni sessanta:
il Veneto non è la California e nemmeno Parigi. Ma Gian Berra non si rende
ancora conto che vive in una realtà addormentata da secoli e svuotata da ogni
entusiasmo. Chi è il ladro che ha rubato la vitalità al popolo in cui si trova
a vivere? Perché la gente sembra cieca alla natura che ogni giorno le alimenta
la vita?
Sono domande ingenue e terribili.
Loro non possono avere una risposta per un artista che sta per scoprire di
esserlo: Gian non ne potrà fare a meno di porsi queste domande. Gian Berra già
dipinge e si dedica alla scultura, ma non lo considera ancora un lavoro. Per
questo tenta alcune fughe all’estero. Prima parte con il cugino Renzo per la
Svizzera e si ferma per un po’ a Shaffausen e a Tayngen. Poi con l’amico
Giannetti se ne va in Germania e visita Braunsweig e Hannover. Comincia a
vedere altri orizzonti e gente diversa. Quando ritorna un poco deluso a casa si
accorge che anche in Italia i tempi sono cambiati. Il 68 è finito e la realtà è
rimasta quella di prima. Sembra che una occasione sia stata sprecata
specialmente dai giovani. A Gian Berra rimane solo la sua moto, il suo
giubbotto alla Che Guevara e tanti sogni così lontani da quella provincia senza
speranze.
Gian apre il suo primo studio
d'arte a Valdobbiadene nel 1973. Questo sarà solo il primo tentativo di
mettersi in mostra con i suoi dipinti e fare le prime esposizioni di quadri in
provincia di Treviso nella regione di Venezia. La realtà dell’arte che lui
trova è deprimente. La provincia ha poco altro a cui pensare oltre al calcio e
alle discussioni politiche.Nel 1977 avviene la svolta: lascia Valdobbiadene per
Covolo di Piave. Non è un gran salto, ma almeno è fuori da un paese che ha
deciso di ammirare solo sé stesso.
Nell’inverno del 1977 fa la sua
prima mostra a Treviso presso la galleria “ Lo scrigno di Val”, in Piazza del
grano. E’ un grande successo che dona a Gian Berra le prime soddisfazioni
concrete.
Gian organizza nel 1978 una
mostra presso la galleria Brotto a Cornuda . E un successo.
Inizia da questo anno la stagione
più avventurosa di Gian Berra. Conosce nel 1978 Vincenzo Martinazzo, un
collezionista con il cuore gonfio di una autentica passione per l’Arte. Lo
chiamano tutti “Ciccio” e lui accoglie Gian Berra nella sua galleria di
Montebelluna. Negli anni seguenti Gian Berra organizza parecchie mostre tra cui
rammento quelle nella sala di “Ca’ de Ricchi” a Treviso nel 1979 e nel 1980. E’
in quell’anno che Gian mette su famiglia e decide di fare un altro grande
salto.
Nel 1981 lui apre uno studio a
Trento, in piazza S. Maria Maggiore. Non sarà solo uno studio, ma anche un
posto dove incontrarsi con artisti amici. Gian Berra inviterà l’amico pittore
Donadel Bruno di Pieve di Soligo (TV) nell’autunno del 1981.
Ma la famiglia di Gian cresce e
lui ritorna a casa nel 1982. Passa qualche anno di pausa e nel 1990 lui fonda
l’associazione culturale “la Criola”. Questo è un altro tentativo “da artista”
per scuotere l’ambiente assonnato e deprimente di un paesaggio veneto senza
speranze. Gian Berra raccoglie con infinita pazienza attorno a sé ogni artista
dei dintorni. Gian organizza mostre, incontri, manifestazioni e cene di poeti
con gli incontri di "Poesia New Age". Poi nel 1993 inaugura il “corso
pratico di pittura”. Questa è forse l’iniziativa che avrà più successo: durerà
sino 2005 quasi ininterrottamente, con due corsi all’anno. Vi partecipano più
di 800 allievi, molti dei quali diventeranno bravi pittori.Negli anni 80 Gian
Berra organizza esposizioni delle sue opere nelle maggiori città italiane e in
Germania a Dusseldorf, Monaco, Wurzburg.
Nel 1998 si specializza in
Psicosintesi terapeutica ed inizia l'indagine intima sul potere dei simboli e
delle immagini. Indaga la potenza nascosta delle immagini e il loro effetto
occulto sull'inconscio collettivo. Le immagini hanno un loro potere che può essere
gestito da una coscienza consapevole.
Organizza alcune conferenze sul
tema della "Paura" spiegata come fantasma-immagine.
Nel 2001 espone per la prima
volta in una mostra di sue opere, cinque totem che lui ha costruito con le sue
mani. “ Totem senza tabù” è il titolo di quella esposizione e Gian inizia a
scrivere i famosi “ Saggi selvaggi” che ora è possibile trovare in intenet. Lui
la chiama Psicologia Sciamanica. Nel 2002 scrive il libro " Psicologia
Sciamanica", una raccolta di scritti dedicati a tale tema.
Nel 2006 esce in stampa il suo
primo romanzo “ Wasere, cuore di drago” dedicato all'anima ferita di Segusino,
il suo paese di nascita e il libro di poesie e racconti “Caos barocco”. Sono
reperibili su Lulu.com.
Nel 2008 inizia la ricerca sullo
"Sciamanesimo della sala d'aspetto" come funzione necessaria in un
periodo storico come il nostro in cui gli "assoluti" tradizionali
tramontano annegati nella globalizzazione. Finalmente è tornato un Caos
salutare? Gian Berra frequenta le periferie di ogni città o piccolo paese e
scopre prospettive vitali che dormono da secoli.
Che sia giunta l'ora di richiamarle?
http://it-it.facebook.com/gian.berra
https://sites.google.com/site/gianberrasite/
http://www.scribd.com/gianberra
https://sites.google.com/site/gianberrasite/
https://sites.google.com/site/segusinosite/
https://sites.google.com/site/pederobbasite/
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